Maurizio G. De Bonis

Nel panorama culturale italiano il cinema di Daniele Segre rappresenta senza ombra di dubbio un fattore disturbante. I film del regista di Manila Paloma Blanca sono infatti totalmente estranei all’omologazione imperante nel nostro paese, omologazione determinata dallo strapotere della televisione ed anche dalla conseguente autocensura operata dagli stessi autori.

Non è dunque un caso che l’ultimo lungometraggio di finzione di Segre, Mitraglia e il Verme, abbia trovato sulla sua strada un muro di gomma che gli ha di fatto impedito di essere conosciuto dal pubblico e dagli appassionati. Mitraglia e il Verme è stato rifiutato da Festival come quelli di Venezia e Torino (ha poi partecipato in concorso a quello di Bergamo) e non ha ancora trovato una distribuzione.

Si tratta di un opera di estremo rigore concettuale ed espressivo che nega con energia la piattezza espressiva che domina, dal punto di vista visuale e narrativo, l’intero panorama cinematografico nazionale. La vicenda è ambientata nei bagni sotterranei di un centro ortofrutticolo. In questo ambiente malsano e squallido si incontrano per lunghi paradossali dialoghi due personaggi emblematici: Mitraglia, responsabile della contrattazione con i grossisti e usuraio senza scrupoli, e il Verme, addetto alla pulizia dei bagni. Tra i due vi è un rapporto dialettico intenso e anticonvenzionale basato su un forte contrasto umano. Da una parte l’arroganza, la volgarità e la bassezza morale di Mitraglia, dall’altra la sottile filosofia visionaria e le improvvise deviazioni poetiche de il Verme che, nonostante la sua posizione gerarchica inferiore, non perde occasione per dare lezioni di stile e di vita al suo tracotante interlocutore.

Il film è suddiviso in quattro piani sequenza che diventano tre quadri autonomi grazie all’uso di effetti digitali. Budget bassissimo, sette giorni di lavorazione effettiva in orari notturni, autonomia produttiva assoluta. La macchina da presa è sempre fissa e seleziona una porzione di realtà che raffigura in maniera claustrofobia un disagio esistenziale opprimente e senza speranza. Nonostante la fissità della camera, Mitraglia e il Verme è un’opera nella quale il dinamismo del racconto è assicurato da una perfetta organizzazione dei movimenti degli interpreti. I due attori si avvicinano e si allontanano, si muovono cambiando ad ogni spostamento la composizione dell’inquadratura e determinando con la loro danza geometrica quelli che possono essere definiti movimenti di macchina virtuali.

Daniele Segre, in maniera decisamente brillante, si è affidato alle capacità dei due protagonisti: Antonello Fassari e Stefano Corsi. Il primo ha saputo fornire alla sua parte una carica di espressività in grado di colpire profondamente il fruitore, il secondo invece ha lavorato in sottrazione stilizzando la sua recitazione e ponendosi in chiaro contrasto con il personaggio di Mitraglia.

L’estrazione ronconiana dei due interpreti (anche collaboratori in fase di scrittura del testo) ha dato un vigore psicologico e simbolico ai rispettivi ruoli ed ha consentito a Segre di costruire un film, che pur sfruttando le qualità teatrali dei protagonisti, possiede una sua evidente dimensione filmica. Se si contestualizza questo lungometraggio nell’intera filmografia di Segre è possibile accorgesi di come tale lavoro sia un punto di passaggio nel percorso creativo di questo cineasta.

La sua attività di autore di documentari è nota a tutti gli studiosi e ai cinephiles, così come noto il suo campo d’azione, definito in maniera forse un po’ schematica “cinema della realtà”. Già con Vecchie, suo lungometraggio precedente, ed ora con Mitraglia e il Verme, Segre ha iniziato un proficuo e profondo lavoro con gli attori abbandonando la narrazione della realtà per collocarsi poeticamente in una territorio espressivo nella quale la trasfigurazione del reale permette un’analisi approfondita della tragicità presente. In tal senso, Mitraglia e il Verme è un film sul disagio e la sofferenza che trionfa nei nostri giorni; è il racconto del degrado che viviamo, la fotografia della malattia che caratterizza i rapporti umani, la stigmatizzazione di un’organizzazione sociale che esalta il potere dei soldi e costringe gli esseri umani a vivere in uno schema piramidale nel quale ognuno è allo steso tempo, carnefice e vittima, e gli uomini liberi sono condannati a vivere ai margini.

a cura di Maurizio G. De Bonis